Una finta normalità


La storia di Sergio

La rigidità degli obiettivi


“La mia vita era all’apparenza normale, avevo terminato il ciclo di studi con buon profitto e poi subito nel mondo del lavoro.
Uno stipendio per uscire, andare al cinema, a teatro o a concerti. Contro le mie stesse previsioni avevo anche preso la patente di guida”.

Inizia così la lettera di Sergio, descrivendo una vita «normale» fatta di piccoli traguardi.
Eppure, manca qualcosa.

Il disagio


“Ciò nonostante avvertivo un profondo disagio e non riuscivo a darmene una spiegazione. Capitava che mi alzassi di botto dal letto, accendessi la luce e mi agitassi in preda ad ansia improvvisa. Sentivo la necessità di muovermi ed uscire, fare qualcosa. In un certo senso ero come una pentola a pressione: accumulavo fino a quando non fosse necessario uno sfogo”.   

Sergio si sente «esplodere» e si sente spiazzato, non è consapevole che tutte le emozioni trattenute per mantenere il controllo sulla sua vita stanno per traboccare dal vaso.

Le tecniche placebo


“Dopo essermi alzato poteva capitare che gironzolassi attorno al tavolo del soggiorno. Poi dopo qualche minuto prendevo un foglio di carta e scrivevo. Spesso appallottolavo e gettavo via il foglio. Non sempre questo mi  calmava: allora andavo in cucina e mi preparavo un bicchiere di camomilla convincendomi che potesse placarmi. L’autosuggestione e l’effetto placebo funzionavano sempre: pochi minuti dopo aver sorseggiato l’infuso riuscivo a mettermi a letto e riaddormentarmi”.

Prova diverse tecniche di rallentamento, ma in realtà sono solo rassicurazioni che fa a sé stesso.

L’agitazione continua


“In altre occasioni era più impellente il bisogno di uscire. Una volta per l’agitazione ho preso la macchina percorrendo molti chilometri, saranno state le 23:30. Poi ho continuato a piedi. Più che camminare correvo, per l’ansia da sfogare. Forse avrei potuto iscrivermi a una squadra di marciatori! Sono tornato indietro e una volta a casa ho percepito il netto calo dell’adrenalina”.

La tensione accumulata spinge Sergio a fare cose su cose: vuole sentire i muscoli stanchi.

La richiesta di aiuto


“Sono passati anni. Ad un certo punto ho pensato che questi episodi fossero spia di qualcosa di irrisolto e profondo. Ho cominciato a cercare professionisti che mi aiutassero a capire e anche a cambiare modalità. Ho capito che per me la casa rappresentava una sorta di prigione con regole rigide, che avevo bisogno di uscire da quel recinto. Ho capito che avevo più bisogno di entrare in relazione con gli altri, che dovevo e potevo essere solo io la persona che decide della sua libertà. Ho cominciato a sperimentare, lasciandomi andare qualche volta”.

Giunge alla consapevolezza di stare male, si rende conto che deve uscire da quella bolla di protezione e controllo ed entrare in contatto con sé stesso attraverso gli altri: dare modo alle emozioni di potersi esprimere.

La casa: la porta aperta


“Capita ancora che sia agitato, me ne accorgo prima e cerco di sfogarmi subito. Ho fatto pace con la casa, il luogo da cui sono io a decidere quando allontanarmi e quando rientrare”.

Dopo un percorso psicologico Sergio ha scoperto le sue debolezze: l’essere rigido e controllato non equivale a saper tenere le redini della propria vita.
Il controllo estremo spesso nasconde una grossa paura: il «sentire le proprie emozioni».

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